Giocare, ma in squadra

Giocare, ma in squadra

22 Marzo 2010 0 Di toniorollo

Sarebbe assurdo definire un Paese vivo, quello che ha alle spalle 150 anni di storia e che per paura di cambiare congela la propria organizzazione e il proprio assetto in un periodo storico che il pensiero, l’azione e il sacrificio di martiri hanno contribuito a costruire, anche all’interno di un alone di leggenda edulcorata e purgata da tradizioni orali che volevano cementare una unità territoriale solo fisica e accidentale, più che ideale e politica. Sarebbe illogico non raddrizzare le storture che il tempo rende visibili, con la giustificazione che ciò che era deve restare solo perché un tempo era un bene.

La Chiesa Italiana, nella sua interezza, non come organismo periferico – e questo è stata una scelta grande – in più occasioni è tornata a occuparsi del Mezzogiorno. E lo ha fatto ponendo all’attenzione di tutta la nazione, dell’intera realtà ecclesiale nazionale le sfide, le angosce di una terra e di una popolazione che dall’Unità d’Italia in poi è stata disegnata dai più come peso, come zavorra per lo sviluppo. Una zavorra che ormai si cerca di gettare dall’altezzosità di un politica che non va oltre il proprio campanile e di una economia che rischia di ridursi alla sterile conduzione familiare. Intanto il mondo cambia marcia e pensa in grande, in senso globale. 

La voce che alza la Chiesa a favore del Mezzogiorno rischia di essere eco di se stessa, a cadenza ventennale o su di lì. Proprio mentre si riappropria del proprio ruolo profetico, con voce unanime, non lasciando più soli i singoli presuli locali, o le isolate chiese particolari, proprio allora rischia di essere zittita dal disinteresse generale, anche perché per antica tradizione “le voci di Dio” sono fatte passare per “farneticazioni dei pazzi”.

Gli occhi della Madre Chiesa si sono voltati verso quella che dovrebbe essere la portaverso il Mediterraneo, il trampolino di lancio dell’Europa verso il continente africano e il Medio Oriente; sono ritornati a guardare ed indicare una terra caratterizzata da una gestione dissennata del territorio, da una amministrazione politica familistica, da una mancata programmazione lungimirante, da una marcata insicurezza sociale e individuale; un giardino da cui la bassa politica, il sindacato autoreferenziale e la cultura poco coraggiosa stanno trasformando in una terra arida e senz’acqua, da dove i fiori più belli stanno ricominciando ad essere estirpati. Già si ricomincia a scappare, non più per dare braccia alle miniere di carbone, ma per dare cervelli alle aziende straniere. Il tutto mentre si preferisce un inutile Ponte sullo stretto ad un più necessario Corridoio.

Il quadro generale è quello di un’Italia che cambia, si trasforma a 150 anni dalla sua nascita, come è giusto e ovvio che sia. Si trasforma in modo, però, impari. Sotto il ricatto partitico di una minoranza che impone ad una coalizione e ad una nazione le proprie scelte. Che guarda a se stessa con accenti spesso razzisti e violenti, che nulla hanno a che vedere con una coscienza di nazione e di sviluppo complementare di territori, all’interno di una più adeguata organizzazione e ripartizione dei poteri e delle risorse, dicono i vescovi. Non basta istituire un Ministero delle riforme per portare alla effettiva riforma di uno Stato in senso federalista, quando il pensiero prioritario è quello della secessione o trovare il modo di dirottare le risorse europee ai propri elettori che non rispettano le regole comunitarie. Non basta pensare ad un ministero che regoli i rapporti con le Regioni e poi affidarlo ad un titolare dimezzato, perché ricattabile per le vicende giudiziarie pendenti. E chiaro che di fronte a un diktat di alcune regioni non potrà nemmeno essere garante del principio di sussidiarietà o di solidarietà. Non c’è in questo caso “gioco di squadra”, per usare l’espressione della Conferenza Episcopale. Ma c’è il gioco del bambino che ha il pallone e che quando il gioco si fa duro, lo prende e se ne va per i fatti suoi e decide con chi giocare. E purtroppo si ha sempre più l’impressione che i giochi siano sempre fatti…

Tonio Rollo

(Articolo pubblicato su L’Ora del Salento)