Il Cortile del Vescovado

Il Cortile del Vescovado

14 Luglio 1996 0 Di toniorollo

Viaggiare sotto il sole di luglio non è certo una cosa piacevole, ma per arrivare al Lecce si può sopportare di tutto, anche coloro che si fermano per darti un passaggio.
Mi è capitato un variegato bestiario da fare invidia a un variopinto film del maestro Fellini. Mi è rimasta in mente quel camionista greco molto simile, anche nel volto e nel modo di essere a quell’Anthony Quinn de “La strada”. Per tutto il tragitto mi ha fatto ascoltare le canzoni della sua terra, mentre con un italiano molto stentato mi chiedeva di indicargli il percorso che dal Molise scendeva giù a Brindisi senza passare dall’autostrada. Oppure come potrò dimenticare il contadinozzo che, con la sua canottiera bianca medagliata da miriadi di macchie, mi parlava delle sue gigantesche cicorie, mentre con la sua 128 zigzagava sulla strada come un ubriaco contento. E poi quella signora che per 50 km mi ha fatto un’accurata disamina sociologica sui rischi che si corrono nel soccorrere gli autostoppisti. E io che mi chiedevo: perché mi ha fatto salire, visto quello che si sente dire su questi giovinastri girovaghi come me? Ma c’è più rischio nel dare o nel ricevere un passaggio per strada?

 Ma alla fine eccomi finalmente a Lecce, sotto questo sole cocente che neanche la mia bandana rossa bagnata di fresco riesce ad alleviare minimamente.

Arrivato vicino ad un obelisco, la mia attenzione è stata attratta da un maestoso arco trionfale sormontato da insegne cavalleresche. Sono rimasto ad ammirarlo nella sua linearità e semplicità anche se non sono riuscito ad inquadrarlo storicamente. È questo il rischio che si corre quando non sia alcuna guida turistica nè su stampa nè in carne e ossa. Quando si viaggia come faccio io si deve risparmiare su tutto, anche sulle guide del Touring Club e sperare in qualche anima buona che faccia da guida. In casi come questo mi limito a fidarmi delle sensazioni che mi danno i diversi monumenti. Ma in quelle strade deserte del pomeriggio afoso è difficile incontrare qualcuno. Mi sembravano quei paesaggi spagnoli bruciati dal sole, visti nei film. Ci mancano soltanto i peones che sotto un sombrero, in un angolo, fanno la siesta.

  Camminando ecco quello che dovrebbe essere un teatro, appena ristrutturato, si direbbe. E continuando una lunga strada lastricata, protetta dai due lati da due schiere di casa come un lungo filare di alberi. È così che cominciò a saltellare su quelle bianche lastre, come un bambino divertito che gioca la campana. Ecco un piede, poi due e poi ancora uno. L’eco dei miei salti a piedi pari rimbomba come se mi trovassi tra le montagne rocciose. Non mi curo di niente, mentre i miei occhi sono lì ad evitare di toccare le linee.

Ad un certo punto mi fermo perché un fiume di asfalto mi taglia la strada. Rimango immobile dispiaciuto. Ma quando alzo gli occhi mi sembra svenire dello stupore.

 ”Ma… E’ la pi-a-zza-pi-ù-be-lla-del-mo-ndo!?!” A questo punto comprendo cosa provavano i pellegrini romani quando sbucavano dalle viuzze del borgo d’oltretevere e si trovavano di fronte l’esplosione architettonica di Piazza San Pietro, prima che Mussolini squarciasse tutto con l’obbrobrio di via della conciliazione. Qui è bene che non sia successo.

Non so per quanto tempo sia rimasto lì senza parole. Ho pensato di trovarmi di fronte ad un palcoscenico, ad un teatro tutto d’oro, per via di quel colore lucente della pietra usata. Nei miei poveri viaggi non ho mai visto una cosa del genere; neanche il complesso del Bramante a Vigevano la sua cattedrale e castello attiguo, o il palazzo Pontificio di Loreto o la stessa piazza di San Marco a Venezia. “È proprio la più bella del mondo!”, mi ritrovai a ripetere ad alta voce. Questo ingresso con le schiere di statue che ti danno il benvenuto, il campanile alto e altero, il Duomo con tutti i suoi angioletti che giocano tra i festoni di fiori e frutta, il colonnato e quel palazzo con quel gioco di intarsi finestre. Da qualche parte un tempo avevo letto, non senza un beffardo sorriso, uno scritto di Berkeley, un filosofo irlandese, che diceva:… forse per la prima volta sente dire che la più bella città italiana si trova in un lontano angolo del tacco. Lecce (l’antica Aletium) è, per i suoi ornamenti architettonici, la città più festosa che abbia mai visto (1) Aveva proprio ragione, devo metterlo.

Lecce è la Firenze del sud, l’Atene dell’Italia”, dice una voce dietro un angolo. Mi volto e mi vedo davanti un personaggio strano. Magro, curvo sotto il peso degli anni, che cammina appena. Sembra una specie di Pantera Rosa con sembianze umane. “Non sei l’unico a rimanere a bocca aperta di fronte a questo spettacolo, continua la Pantera Rosa. Da quando è stata costruita in un secolo dal 1420 al 1550, dai vescovi Girolamo Guidano e poi da Giovan Battista Castromediano, fino ad oggi tantissimi hanno lasciato il cuore in questa piazza; come lo stesso papa Wojtyla quando ha alloggiato qui due anni fa”. Sono rimasto lì ad ascoltarlo come catturato dalle parole di questo mio Virgilio, guida fuori-luogo in questo paradiso terrestre. “Ma questa piazza non è stata sempre così. Quando fu fatta dava l’idea di un vero e proprio cortile dal momento che era chiusa proprio qui da un grande portone in rovere sormontato da un bellissimo orologio e dalle insegne dei principi di Taranto e dei conti di Lecce, intagliate in pietra leccese di bellissima manifattura. 

Poi tutto intorno c’erano 25 botteghe di artieri che facevano corona al Duomo e o al palazzo vescovile e che pagavano l’affitto alla Mensa vescovile. Non mancavano poi dei massicci muri che rendevano il cortile di piazza Duomo una fortezza inespugnabile. Un’altra porta più piccola recava verso la sacrestia della chiesa di Santa Teresa.”

Mentre parlava mi sentivo come quando da bambino ascoltavo le favole di mio nonno vicino al braciere di casa. ”Allora, era il 1452, – prosegue il vegliardo con quella lena di chi ha finalmente la possibilità di parlare a qualcuno –  il conte di Lecce e principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo, per il giorno di Tutti i Santi, istituì una fiera, che vedeva protagonisti tutti questi artigiani che ruotavano nella piazza. Era chiamata anche il Paniere del Vescovado o la Spesa del Monsignore, perché si esigeva per conto del Vescovo una regalia dai venditori e dai compratori di ogni genere di mercanzia. Dieci anni dopo re Ferrante di Aragona prorogò la fiera per otto giorni, da come risulta dal Libro Rosso dei Privilegi della Città di Lecce. Ma in quel periodo la piazza aveva già subito vistose trasformazioni. Verso il 1630 il vescovo di allora Scipione Spina, cominciò ad abbellire il palazzo vescovile con quel colonnato e con quel portico, che ora vedi, anche se aveva ancora le scale esterne.

“E la cattedrale com’era allora?” Domando incuriosito di fronte a questa valanga di parole.

Allora era molto diversa. La prima fabbrica, secondo una leggenda, fu costruita nel primo secolo nel giardino del palazzo della nobile leccese Santa Petronilla, dove riposavano le sacre spoglie dei santi leccesi. Già da allora la chiesa fu dedicata alla Madonna Assunta (2). Ma quella costruzione non c’era più alla fine del primo millennio. Una chiesa fu fatta costruire nel 1114 dal vescovo Formoso grazie all’aiuto dei conti normanni, ma appena 100 anni dopo sembra sia stata fatta cadere, con tutta la torre campanaria dai saraceni che di notte indebolivano le fondamenta dell’edificio. La cattedrale, quindi, fu ricostruita subito dal vescovo Volturnio.”

È questa la cattedrale di Volturnio?”, incalzo io.

Il pozzo (cisterna) del Seminario

No!” Risponde risentito per l’interruzione. ”Questa, compreso il campanile, è stata iniziata e portata a termine nella metà del ‘600, grazie al vescovo Luigi Pappacoda. Su questo grande vescovo si racconta che quando il 30 maggio del 1639 giunse al Lecce, accolto dalle campane che suonavano festa e da una miriade di fedeli di ogni ceto, appena giunto in questo cortile e sceso da cavallo, fu sommerso dalla folla che lo voleva ossequiare. Subito gli furono strappati i paramenti sacri e la mitria, tanto da essere costretto a rinchiudersi prima in un confessionale e poi, attraverso una scala segreta, raggiungere il suo palazzo. Questo vescovo ha sempre dimostrato l’amore per il popolo, per il quale era pronto a vendere la sua mitria. Fu sempre il Pappacoda a far costruire questo nuovo campanile, dopo l’abbattimento della precedente torre campanaria, che si trovava all’angolo tra le due facciate, che rischiava di cadere sulla cattedrale stessa. 

Il campanile per un certo periodo è stato utilizzato anche come posto di osservazione, dal momento che da lì erano visibili in due mari.  È alto oltre 50 m, mentre il solo Sant’Oronzo a banderuola è alto oltre 2 metri, tanto da essere il 17º campanile d’EuropaSi racconta che durante la costruzione della stessa cattedrale da parte di quello zingarello dello Zimbalo, si ebbero dei problemi di stabilità, tanto che il vescovo e i preti inseguirono l’architetto che fu costretto a rinchiudersi nella chiesa di Sant’Angelo, da dove uscì dopo aver promesso di lavorare gratuitamente all’opera del Duomo e ad alcuni altari interni, compreso il coro. Il popolo diede fino a 150.000 lire, il clero L. 17.000 l’anno e lo stesso prelato 500 carri di calce, messi da parte per la peste che aveva sconvolto il sud d’Italia, lasciando salvi Lecce e il Salento, grazie Sant’Oronzo nostro. Nel 1663 Pappacoda, nella prolusione al sinodo diocesano, esaltava la costruzione della nuova cattedrale rapportandola alla necessaria edificazione interiore del suo popolo, dicendo che: come la collaborazione tra il clero e i fedeli aveva visto costruire il Tempio alla Vergine Assunta, che in quel momento tutti potevano vedere terminato, così sperava di vedere un giorno il tempio vivo di Dio, gli stessi fedeli, più sicuro, più splendente e più santo.”

E il palazzo del seminario quando è stato costruito?”

Come ti dicevo prima, anche in quel lato c’erano delle botteghe di artigiani. Solo dopo tantissime insistenze da parte degli stessi legati papali, solo il vescovo Michele Pignatelli riuscì in quello che suoi predecessori non erano riusciti a fare: il Seminario. Fu Fulgenzio Minioti, sindaco di allora, che demolì quelle botteghe per poter dare inizio alla nuova fabbrica, per opera dell’architetto Giuseppe Cino. Iniziato nel 1694 fu portato a termine nel 1709 sotto l’episcopato di un altro Pignatelli, Fabrizio. Fu proprio questo vescovo, quello delle pignate che vedi in quello stemma –continua mentre mi indica uno stemma sul portone dello stesso seminario – che il 1 settembre entrò nel seminario con 12 seminaristi che ordinò chierici tra la gioia e i mortaretti della gente accorsa.

In poco tempo la mia Pantera Rosa ha fatto il giro della piazza seguendo la sua centenaria storia. Guardo tutto sentendomi come in un vortice di emozioni le sensazioni che non so dire. Mi fermo guardando l’ingresso della piazza. Gli domando: “E Il portone di rovere che era lì?”

Quello fu abbattuto dal vescovo Alfonso Sozy-Carafa quando nel 1761 rimodernò il palazzo vescovile e la piazza stessa. Tieni presente un fatto che in quel palazzo hanno abitato non solo i vescovi di Lecce e ultimamente il papa regnante, ma anche re Ferdinando IV, quando nel 1797 venne a visitare questa bicocca di città. È stata anche la sede del Sovrintendente quando a Napoli c’erano i francesi di Napoleone nei primi anni dell’ottocento. In quel periodo le truppe francesi alloggiarono nel seminario devastandolo. Si dice che per rimetterlo in piedi fu speso più che per costruirlo. Ma ritorniamo al portone, dice la mia pantera rosa, avvicinandosi ai propilei. Queste statue furono messe al posto di quel portone per accogliere i fedeli pellegrini che arrivavano a frotte. Vedi quella scritta che c’è sotto? Francamente si dice che lì stia scritto: Per assicurare più efficacemente un ingresso più libero è visibile una porta più libera ed elegante; i limiti sono segnati dalle statue sacre per decorare l’atrio del tempio principale.

Quando fu abbattuto l’orologio di monsignor Candido fu ricostruito sull’episcopio da Domenico Panico. Si tratta di uno dei primi orologi elettrici sincroni che tra il 1868 e il 1874 arricchiranno la città di Lecce che il vescovo-scienziato lasciò nella sua città natale, una delle prime città in Europa, prima di finire i suoi studi e la sua esistenza come vescovo di Ischia dove è sepolto.

Perché – mi viene da domandare – quella prima statua dei propilei, a sinistra, si sta fustigando?

Per colpa di quello lì! – mi dice indicando un omone con i baffi bianchi simile a John Wayne che legge ad alta voce un giornale, mentre il suo cane dispensa ricordini della piazza. “Lo vedi? -prosegue – ”Poverino, ogni tanto se ne viene nella piazza più bella del mondo per utilizzarla come un bagnetto per il suo cagnolino. Poi si mette a gridare: la piazza è mia!! … La piazza è mia!!! Lo dice perché secondo quanto racconta gliel’ha venduta Totò insieme con la fontana di Trevi.”

”E nessuno smentisce quello che dice?” incalzo io.

Non è necessario, perché ogni cosa che dice, o fa scrivere su quel giornale, si smentisce da sola”.

Ma se non è sua la piazza, di chi è? Del sindaco?

No! Questo è un luogo sacro! Riguardo alla proprietà la faccenda è abbastanza chiara!. Il famoso Paladini, Regio Ispettore dei Monumenti e degli Scavi di Antichità nel 1929 scriveva: la Piazza o Cortile del Duomo, con tutto l’insieme armonico e gigantesco dei suoi monumenti, ha formato sempre nei secoli, ed è tutt’ora e per l’avvenire sacra, intangibile, vetusta, nobile proprietà dei vescovi di Lecce.

D’accordo, Questo è uno scritto storico, di grande valore, ma le varie amministrazioni locali hanno mai detto qualcosa?”

Certamente!, Continua il mio Virgilio. Il 13 marzo 1930 il Consiglio Comunale di Lecce: esaminati e vagliati i precedenti storici, giuridici e di fatto dai quali risulta in modo certo che la proprietà della piazza si appartiene alla Mensa Vescovile con diritti di uso a favore della cittadinanza. A queste conclusioni si era giunti dopo che alcuni avvocati incaricati dallo stesso Comune avevano studiato la questione. Per questo con una delibera riconosceva che la proprietà della piazza del Duomo spetta unicamente alla mensa vescovile di Lecce, mentre il pubblico conservava il diritto di libero accesso ed uso della piazza compatibilmente con la naturale finalità ed il rispetto dovuto ai sacri luoghi esistenti. Alla fine la delibera concludeva in modo chiaro: il Comune continuerà a riscuotere la tassa di posteggio in occasione della festa del Paniere, mentre continuerà in modo permanente e stabile a tutte le sue spese, il disimpegno dei pubblici servizi di illuminazione manutenzione della piazza e di una obbrobriosa fontana che è stata tolta e la  spazzatura della Piazza. Questa delibera si fu confermata dal prefetto di Lecce il 10 aprile dello stesso anno”.

Mentre lui parlava io mi godevo quello sceriffo, a cui piaceva sentirsi leggere, che s’era buttato per terra tentando di abbracciare la sua piazza, tanto da sembrare un tappeto. Mi giro e vedo il mio vecchietto che, come in un vecchio film di Charlot, vola via come un fantasma verso l’orizzonte.

Ehi… – gli  grido – non mi hai detto  neanche come ti chiami…
Sono Carmelo, l’ambidestro più potente del Sud”.

(1) A conferma riporto quanto segue: Lettera indirizzata da Berkley un suo amico, Percival, – datata 8 aprile 1717,

Signore, sono appena rientrato da un viaggio per le terre più remote e sconosciute d’Italia. Vostra Signoria conosce perfettamente le città più decantate, ma forse per la prima volta sente dire che la più bella città italiana si trova in un lontano angolo del tacco. Lecce è, per i suoi ornamenti architettonici, la città più fastosa che abbia mai visto.

cit. in M. S. Quarta, Lecce l’armoniosa. Le coste riscoperte. Il ritorno della Terra d’Otranto, in Tante Italie Una Italia.  Dinamiche territoriali e identitarie (Volume II – Il Mezzogiorno. La modernizzazione smarrita), C. Muscarà, G. Scaramellini, I. Talia (a cura di), Franco Angeli edizioni, Milano, 2011, pag. 78, da http://bistrocharbonnier.altervista.org/gran-tour-settecentesco-terra-otranto-parte-prima/

(2) Dubbio! Se fosse vero sarebbe un falso storico perché sembra strano che si possa dedicare una chiesa all’Assunta prima del dogma dell’Assunzione che è del 1950 con Pio XII. E’ pur vero che la venerazione della Vergine sotto il titolo di Assunta in cielo in anima e corpo risale già al V sec. – san Gregorio di Tours (538-594).

Articolo pubblicato su L’Ora del Salento, in data da verificare nell’estate del 1996

Tonio Rollo